Abbiamo prenotato treni, aerei e appartamenti mesi prima, preparato portfolio, biglietti da visita, rinfrescato il sito e programmato appuntamenti e visite.
Abbiamo letto il programma delle conferenze e degli incontri e infine siamo partiti alla volta della Children’s Book Fair di Bologna.
E poi, abbiamo navigato nella folla oceanica, fermandoci per riabbracciare amici, colleghi, salutare clienti con cui abbiamo lavorato così bene l’anno appena passato.
E’ sorprendente come ogni anno la Fiera sembri non arrivare mai, per poi passare in un soffio, lasciandoci con le gambe a pezzi e la testa ronzante di nuove idee.
Ci chiediamo se si realizzeranno mai o finiranno nel ripostiglio dei progetti mai partiti.
Ti è già capitato di avere la sensazione che quei giorni spesi in Fiera a macinare chilometri sul conta-passi fossero stati spesi male?
Di pensare “A cosa è servito?” demoralizzandoti un po’?
A me sì, specialmente dopo le prime volte in Fiera.
Dopo averla visitata come “turista”, però, mi sono decisa a muovermi secondo un piano abbastanza definito e professionale, decidendo cosa fare e chi incontrare (coi giusti spazi di libertà, per non privarmi del tutto di una dimensione “di svago”) in funzione di cosa avrei voluto ottenere.
Grande importanza riveste il dopo; tirare le fila dei contatti presi e delle idee sviluppate durante quei giorni frizzanti di idee ed intuizioni.
Ecco allora cinque cose che faccio dopo questa importante manifestazione.
Cerco di intraprenderle a partire dalla settimana immediatamente successiva alla BCBF per gli editori italiani, o due o tre settimane dopo per quelli stranieri; molti di loro si troveranno infatti alla London Book Fair, che si tiene quasi subito dopo quella di Bologna.
Nel 2014 mi accorsi solo verso giugno che il mio sito non era più raggiungibile da metà marzo, quindi per i tre mesi successivi alla Fiera!
Da allora ho imparato a controllare che tutto funzioni a dovere, prima e dopo l’evento.
Non solo aggiorno le galleries quindi, ma mi accerto che non ci siano malfunzionamenti, broken link e problemi di varia natura nel contattarmi.
Negli ultimi 3 anni inoltre, metto a disposizione il download di alcuni campioni di portfolio (tearsheet, in PDF) e controllo che il link da Dropbox funzioni alla perfezione.
Metto sulla scrivania tutto il materiale raccolto durante la Fiera.
Cataloghi, biglietti da visita, segnalibri, cartoline; ma anche appunti (e fotografie, su PC) degli stand che più mi hanno colpita.
Sono diventata selettiva nella raccolta di materiale in Fiera; nonostante ciò, faccio un lavoro di ulteriore scrematura, separando il materiale che ho prelevato perché mi piace da quello che mi potrebbe dare lavoro.
Mi spiego meglio: posseggo molti libri e prodotti che amo avere intorno, ma non disegnerei mai in quel modo né lavorerei con chi li ha prodotti e distribuiti.
Soprattutto se sei ai primi inizi del tuo lavoro da illustratore, presta molta attenzione a questa distinzione: hai preso quel materiale perché lavoreresti così, o solo perché ti piace da consumatore? Non sempre le due cose coincidono.
Ecco che questa fase di ordine fisico mi permette di riordinare prima di tutto le idee.
Nonostante vorrei possedere librerie sconfinate e traboccanti, non sopporto avere intorno troppa carta, perciò tengo pochissimo del materiale che raccolgo, che mi serve perlopiù come promemoria.
Trascrivo su un file Scrivener (lo stesso software che utilizzo per scrivere i post su RDD) tutto ciò che mi serve. In questo modo siti e contatti sono facilmente reperibili tramite chiave di ricerca; posso inoltre copia/incollarli al momento del contatto email.
Nei Preferiti del mio browser ho una cartella dedicata ai cataloghi online di editori e produttori con cui vorrei collaborare. Questo mi consente di rimanere aggiornata e tenere d’occhio i miei sogni e le mie ambizioni in modo piuttosto concreto.
Faccio quello che per me separa sempre il fantasticare dal fare: scrivo una lista di potenziali clienti con cui vorrei lavorare.
Alcuni restano nella Dream List per anni, altri scompaiono col passare del tempo perché cambiano i miei piani, cambia la loro impronta editoriale, vengono assorbiti da altri gruppi o nel peggiore dei casi chiudono battenti. (Eh sì, succede anche questo!)
Mi impegno a fare in modo che la Dream List resti sempre bella nutrita e a sognare in grande.
Creo anche una lista di clienti con cui mi è piaciuto lavorare in passato e pianifico di aggiornarli sui miei nuovi lavori, sperando di collaborare ancora con loro.
Creo uno o più portfolio PDF mirati al tipo di cliente che voglio contattare .
E poi, pronti all’azione: contattare, contattare, contattare!
A questo proposito… Vale per tutto l’anno, ma visto che il rischio di questa barbara usanza si accentua nel periodo consecutivo alla Fiera, parliamone: non è il caso di mandare email a tappeto a qualunque editore, al grido di “Su 300 uno mi risponderà”.
Contatta solo redazioni che senti affini. Non ha senso saturare le caselle email di mezzo mondo!
E’ poco educato e mostra poco rispetto per altre persone che come noi lavorano.
Prenditi il tempo di selezionare. E’ funzionale, elegante e decisamente più professionale.
I primi anni è normale avere risposte fredde o tiepidine al post Fiera, ma alla fine la perseveranza premia. Non smettere di disegnare e fatti un favore: non fissarti sullo stesso portfolio per l’eternità. Rinnovalo, rimpinzalo.
Lo so, sembra scontato, ma dopo aver visto decine di cartelle lavori vecchie di anni (per mancanza di nuovo materiale) mi sento di specificarlo in questa lista, come consiglio ai corsisti e a chi mi chiede una consulenza.
Pazienza non significa starsene con le mani in mano: come diceva quella gran figura controversa di Pablo Picasso, “l’ispirazione deve trovarci all’opera”.
E anche i clienti, aggiungo io.
Quante cose da fare e da considerare, vero?
Hey! Non ho mai detto che disegnare per professione fosse facile o veloce! Ma è fattibile, col giusto impegno e una dose massiccia di dedizione.
Buon lavoro!
L’ultimo lunedì di questa serie chiudiamo il ciclo di interviste a cura di Mariapaola Pesce , con la seconda parte della chiacchierata con Davide Calì, autore di libri per l’infanzia e fumetti.
A cura di Mariapaola Pesce
Se un artista finisce per incagliarsi in un progetto da cui non esce, o il suo stile perde appeal, si demotiva, che consiglio dai?
Questo è un altro dei tanti aspetti difficili da gestire. Non è facile capire quando un progetto non sta funzionando. Io l’ho sempre fatto istintivamente, ma non saprei spiegare se seguo un criterio di qualche tipo. In generale consiglio di cercare un distacco dal proprio lavoro.
Quando hai una forte affezione per qualcosa, hai più difficoltà a lavorarci, a rivederla in funzione di un feedback o a lasciarla andare se non funziona.
In generale si deve essere pronti, credo, a mettere da parte le cose e riprenderle dopo un po’. L’ostinazione produce quasi sempre frustrazione, se poi il risultato non arriva.
Senti, ma in veste di editor, ce la faresti una fenomenologia dell’illustratore?
Hahah! Ma se ti rispondo poi nessuno vorrà lavorare con me!
Scherzi a parte, tutti abbiamo delle attitudini e dei difetti, io per primo e chi lavora con me lo sa molto bene.
Penso che più che una fenomenologia dell’illustratore, ci sia una fenomenologia di quello che vorrebbe esserlo e convenzionalmente si chiama wannabe. (Aspirante o mancato, n.d.r)
Attenzione, non è un dilettante pieno di sogni, quello lo siamo stati tutti.
Il wannabe è quello che in qualche modo non supera mai la fase del sogno.
E’ un po’ un simulatore, si traveste da professionista e si mescola agli altri, ti chiede un appuntamento o ti scrive, sperando in una risposta.
Ma in realtà la sua vera speranza è di non avere nessuna risposta, per continuare a crogiolarsi nel sogno. Se gli rispondi, c’è quello che svanisce immediatamente e quello che invece va avanti, viene all’appuntamento oppure ti spedisce materiale sempre sperando che non succeda nulla. Se invece succede che ti piace e lo richiami, di nuovo, c’è quello che sparisce, quello che educatamente ti comunica che non può dedicarsi al progetto e quello che invece va avanti.
Sono i peggiori, perché troveranno il modo di far fallire il progetto in corso, dopo che ci hai già investito dei soldi e del tempo.
Sei dell’idea che il coaching possa essere applicato
alla dimensione artistica dell’illustrazione?
Sì, ne sono convinto.
Lo penso da quando mi sono reso conto che la direzione artistica non basta. Certe volte, per sbloccare un lavoro o una carriera che si è fermata, bisogna agire sulle origini del blocco.
In alcune occasioni ho seguito persone bloccate nel lavoro, sono riuscito ad accompagnarle fino alla presentazione dei progetti, ma poi li hanno fatti franare per questioni caratteriali. E’ lì che ho capito che non basta semplicemente perfezionare un progetto o un portfolio, bisogna capire in che punto tutto si è inceppato.
Nata a Genova nel 1965. Libraia per eredità familiare, poi formatrice aziendale ed executive coach per una multinazionale delle telecomunicazioni, al momento si occupa di scrittura e formazione, coordinando le attività del progetto Omero- Gli scrittori raccontano i libri.
Al suo attivo il libro Il bello dello sport (Giunti – Progetti Educativi), e diverse collaborazioni con Slowfood e la rivista Lg Argomenti. Il suo primo album illustrato per bambini Si j’étais une souris è in uscita per Grasset nel 2018, contemporaneamente ad un albo con Eli Publishing ed un volume con Electa.
Questo quarto lunedì ospito l’intervista di Mariapaola Pesce a Davide Calì, autore di libri per l’infanzia e fumetti. Il tema è scottante: come si affrontano le critiche al proprio lavoro?
E come si può reagire quando un editore rifiuta il nostro progetto o il nostro portfolio?
Buona lettura!
A cura di Mariapaola Pesce
Ho conosciuto Davide agli esordi della sua carriera di autore, quando gestivo una piccola libreria per bambini. Insieme abbiamo tenuto qualche corso per aspiranti scrittori, poi le strade si sono divise, e mentre lui si affermava come autore, io mi dedicavo alla formazione, e con gli anni al coaching. È in questo ruolo che gli propongo questa chiacchierata.
Davide, hai iniziato come illustratore, e sei passato alla scrittura.
Ti sei “allontanato da” o sei “andato verso”?
Sono tutte così difficili le domande? Per me in realtà scrivere e disegnare è un po’ la stessa cosa. Quando disegnavo, avevo le storie in teste, i personaggi parlavano mentre disegnavo, come se vivessero di vita propria. Ora perlopiù scrivo, ma ho sempre il film della storia che mi scorre in testa, vedo come e dove si svolge l’azione, l’espressione dei personaggi, i gesti delle mani.
E di fatto scrivo anche le illustrazioni.
Ti faccio vedere un video.
David Grohl dei Foo Fighters spiega che per lui è stato facile passare dalla batteria alla chitarra, perché sono lo stesso strumento. Sembra assurdo, ma sono perfettamente d’accordo con lui.
Torna un momento a quando illustravi (anche se sporadicamente lo fai ancora):
quali sono i ricordi principali di quel periodo?
Disegnavo molto. Ho immaginato moltissime storie che non ho mai finito e tante altre che ho finito e mai pubblicato. Disegnavo anche vignette e altro.
Poi hai scritto a lungo: hai oltrepassato quota 100 libri.
Tra le tante cose che fai, sei spesso dall’altra parte della barricata, come insegnante, editor e capo progetto.
Quali sono i momenti e gli aspetti più delicati?
Uno degli aspetti più delicati penso sia comunicare un feedback negativo o un rifiuto.
Non è facile in questo lavoro non prendere le cose sul personale e qualche volta gli artisti sono permalosi. Bisogna saper comunicare che quella dell’editore, è e rimane un’opinione.
Un rifiuto non è la fine del mondo, anche se una sfilza di rifiuti possono metterti in crisi e indurti a riconsiderare i tuoi progetti o la tua carriera. La stessa cosa vale per un feedback negativo. È un’opinione, e vale come tale in un certo contesto. Non è un giudizio con un valore assoluto.
Puoi svelarci il segreto del tuo stile nel dare feedback? Hai un modello a cui ti rifai, o qualcuno che ti ha dato consigli preziosi che offri anche tu?
Non so se mi rifaccio a un modello. Forse a un modello negativo. I modelli negativi mi sono sempre stati utili. Nel tempo ho visto tante persone che non volevo diventare e mi hanno aiutato enormemente a diventare un’altra cosa.
Ora che mi ci fai pensare, in questo primo anno di lavoro forse ho adottato il modello di Naomi, la mia editor a San Francisco. Lei è sempre super entusiasta del lavoro, ma ciò non toglie che lavoriamo i testi e le illustrazioni diecimila volte per arrivare alla perfezione e le sue mail sono zeppe di correzioni e richieste di cambiamenti da fare. Però spende sempre una parola per quello che le piace, con il suo caratteristico entusiasmo californiano, per cui alla fine dopo una mail di tre pagine, non percepisci solo che è tutto da rifare, ma anche che il lavoro le è piaciuto moltissimo.
A volte ho guardato Master Chef, con commenti imbarazzanti e spietati, tipo” avrei vergogna a dire di aver cucinato questo piatto”. Ti capita mai di dire a qualcun: questo libro fa schifo?
Non penso di averlo mai fatto. Ad alcune persone ho detto che a mio parere il loro lavoro era inadeguato a un mercato commerciale, ma questa io non l’ho mai intesa come una sentenza di morte.
È un’opinione ed è relativa all’adesso, non vuol dire che chi mi ha portato quel portfolio non combinerà mai nulla di buono. Però le persone che ti fanno vedere il loro lavoro spesso vogliono proprio sapere a che punto sono, ed è giusto dirglielo.
Se lo scopo è il professionismo, e ripeto se, perché se non lo è cambiano tutti i parametri, il mercato ha delle regole. Non mi soffermo nemmeno a dire se siano giuste o sbagliate, io le ho solo imparate e cerco di guidare le persone che vogliono seguire i miei passi perché arrivino dove vogliono.
Credo però che insultare qualcuno dicendogli che fa schifo non sia costruttivo ma un puro esercizio di egocentrismo e di presunzione. Confesso che non ho mai capito le finalità di Master Chef e di altri programmi sul genere, se sia solo giudicare aspiranti chef, o anche formarli, ma in ogni caso non mi piace la spettacolarizzazione che si fa dell’umiliazione. Soprattutto quando a farla è un presunto grande chef che poi inventa ricette con le patatine chips solo perché lo hanno pagato per farne pubblicità.
Torniamo a noi: a te come autore, è successo? Se sì, ne hai tenuto conto?
Che qualcuno mi dicesse che facevo schifo? Mi pare di no. Se è capitato non me ne ricordo. Non è stato facile arrivare dove sono, ma mi sembra di aver sempre incontrato persone abbastanza gentili.
Qualche volta incompetenti magari, qualche volta mi hanno dato con sincerità i consigli sbagliati, ma non mi ricordo nessuno che mi abbia mai insultato.
Ho ricevuto tanti no e con meraviglia di tanti, continuo a riceverne.
Beh, sì, un po’ mi meraviglia, l’idea che in molti hanno di te è che non sbagli un colpo!
Questo mi incoraggia molto nell’incassare i primi rifiuti che sto ricevendo come autrice.
Quindi, bisogna sempre tenere conto dei feedback degli editori?
Questa è una domanda che richiede una risposta complessa.
Ai miei corsi dico sempre che non bisogna prendere per oro colato qualsiasi cosa dicano del tuo lavoro. Ma quando sei all’inizio una delle cose difficili da capire è proprio fino a che punto accettare le critiche. Se non ne accetti, secondo me, non vai molto lontano.
Nel momento in cui pensi di condividere il tuo lavoro con qualcuno, per forza di cose, devi fare i conti con le opinioni e le visioni altrui. Al tempo stesso però, se ascolti i consigli di tutti rischi il cortocircuito.
L’editoria non è una scienza esatta: ognuno ha o crede di avere, la sua formula e per tendenza te la spaccia come unica per cui, ascoltando più voci il risultato è che non ci capisci nulla, perché ognuno dice il contrario degli altri.
Ciascuno deve trovare la sua strada, capire cosa vuole, dove vuole andare e fino a che punto si sente disponibile di seguire le richieste o i consigli altrui.
Il difetto principale degli editori, che confonde chi propone il proprio lavoro, è una visione sempre troppo auto-centrata, per cui quasi nessuno si ricorda di aggiungere “secondo me” quando commenta il tuo lavoro. Se dall’altra parte c’è una persona inesperta ovviamente prenderà il parere come un dato di fatto, un giudizio assoluto, cosa che non è quasi mai.
Ah, il magico potere del “secondo me”!
In questo senso, se un artista si accorge che un feedback è troppo duro, o generico, o sbagliato, tu cosa consigli?
Io consiglio sempre di segnare un confine molto netto, tra educazione e maleducazione.
Non bisogna mai accettare un giudizio palesemente offensivo. Spesso mi è capitato di illustratori che mi chiedono consigli per fronteggiare comportamenti anomali, perché non sanno come reagire. Si tratta perlopiù di comportamenti che non hanno a che vedere con la qualità del lavoro ma con la disponibilità dell’artista a lavorare gratis. C’è chi ti dice chiaramente: non sei nessuno, ti ho chiamato a fare un lavoro, dovresti ringraziarmi.
Aldilà della visione molto opportunistica, credo che la maleducazione sia fuori discussione.
Poi, se il giudizio è generico, forse non c’è interesse dall’altra parte a darne uno più accurato e, non si può obbligare qualcuno a farlo. Se è sbagliato e si sta già lavorando con qualcuno, penso si possa discutere. Se alla fine le visioni reciproche non combaciano si deve valutare la possibilità di lasciar perdere la collaborazione, oppure di accantonare il progetto per fare un’altra cosa.
Ma ci sono cose che fanno paura tutto l’anno. Come l’invio di un portfolio pieno di errori!
Ne riconosci qualcuno in questo elenco? Sbagliando si impara. :-)
Se guardo i miei vecchi portfolio (che ho conservato come monito) mi accorgo di come fossero meno efficaci di quelli che preparo negli ultimi anni.
E’ normale. L’importante è correre ai ripari!
Gli errori possono riguardare due elementi in particolare.
Sono quelli che hanno a che fare proprio con le immagini che abbiamo scelto.
Il tuo portfolio non ha niente che non va. Ma il modo in cui lo presenti fa la differenza.
Soprattutto gli editori, a volte richiedono formati particolari, non ricevono allegati in casella e vogliono solo il link al portfolio online; altri ancora accettano solo l’invio cartaceo o del CD.
Vai sul sicuro e leggi sempre le linee guida messe a disposizione sui loro siti.
Qualche settimana fa, poco prima di Natale, sono uscita sotto una fitta pioggerellina milanese per ritirare il “Manuale dell’illustratore” di Anna Castagnoli da Editrice Bibliografica.
Dopo una lunga attesa lo volevo a tutti i costi prima delle feste, per sfruttare un’improvvisa e generosa manciata di tempo che queste mi avevano regalato e poterlo leggere in santa pace senza troppe interruzioni.
L’ho centellinato pagina per pagina e sono stata molto soddisfatta dell’acquisto.
Ho avuto la sensazione di continuare in profondità una lettura già avviata negli anni seguendo Le figure dei Libri; questo è stato da subito uno dei punti a favore di questo manuale, che si propone di presentare l’illustrazione come mestiere a chi non lo conosce oppure non ne ha ancora toccato con mano i risvolti più pratici.
Nonostante da qualche anno l’illustrazione sia la mia professione sulla carta e nella vita, non ho mai smesso di leggere pubblicazioni dedicate a questo argomento; mi piace aggiornarmi, ma anche conoscere l’approccio di diversi illustratori nell’affrontare le sfide quotidiane che un mestiere creativo (ed in proprio) porta ad affrontare.
Quando ho cominciato a fare illustrazione nel 2009, questa non godeva a livello nazionale di tutta l’attenzione che ora le viene riservata e a cui siamo abituati; perciò ho dovuto ordinare diversi manuali dagli Stati Uniti.
Pur trovandoli quasi tutti scritti e strutturati bene, ho sempre riscontrato delle inevitabili divergenze fra la realtà americana e quella del nostro Paese; perciò sezioni come quelle dedicate a legge, burocrazia, fisco e contabilità le ho sempre percepite fin troppo vaghe per le mie esigenze (molto concrete).
Sono numerosi i motivi per cui considero questo uno dei manuali più utili che mi sia capitato di leggere sul mestiere di illustratore. Io ve ne elenco alcuni. Gli altri, potrete scoprirli da voi! :-)
L’autrice ha confezionato un bel libro , ricco di consigli e soluzioni, ma anche di spunti e considerazioni personali che stimolano ad una riflessione sul concetto di albo, illustrazione e soprattutto di etica professionale .
Inoltre, numerosi box di glossario ed approfondimento arricchiscono la lettura.
Il “Manuale dell’illustratore” è un bel volumetto da custodire gelosamente nella propria libreria e da prestare con parsimonia: bisognerebbe sempre averlo a portata di mano perché può essere provvidenziale!
Segnalo che è disponibile anche una versione digitale per Kindle e tablet.
In molti pensano che quello del libro per bambini sia un mercato redditizio.
Di certo lo è, se paragonato al resto: i libri per bambini sono di fatto – in Italia e non solo – i libri più venduti.
Ma si può vivere scrivendo e illustrando libri per bambini?
Ho pensato di rispondere a questa domanda, rispondendo in realtà a una decina di domande-tipo che dovrebbero illustrarvi più o meno come funzionano le cose.
Il contratto standard prevede il 10% sul prezzo di copertina per l’autore, al lordo delle tasse. Se gli autori sono due, scrittore e illustratore, di norma si divide metà per ciascuno, quindi il 5%.
Il guadagno dipende poi dal prezzo di copertina e dalle copie vendute e per valutare la cifra possibile si parte dalla tiratura, che cambia da paese a paese.
In Italia ormai credo le tirature per gli album siano sulle 1000 copie, una cifra al di sotto del numero minimo (1500) per ammortizzare le spese di stampa, che però i distributori hanno richiesto per evitare di accumulare libri nei magazzini, visto che nelle librerie nessuno ne compra.
Fino a qualche anno fa la tiratura media era 2000-2500.
In Francia è 4000-5000, idem in Germania. In Corea mi pare sui 2500-3000, in Portogallo 1000, in Spagna mi pare 2000, ma per ogni lingua: di solito gli spagnoli co-editano infatti i libri in castigliano e catalano (quindi 2000+2000), poi galiziano (1000).
Su un prezzo medio di 15 euro, su 1000 copie vendute, il ricavo per l’autore è 1500 lordi, da dividere se ci sono autore e illustratore.
Sulle vendite all’estero – e su ogni genere di adattamento o riduzione, cartacea o multimediale come dvd, cinema, tv, ipad – il contratto standard prevede il 50% per l’editore e il 50% da dividere tra gli autori (25%+25%).
Dipende dal paese che compra, dal cambio delle monete, dal numero di copie che si stamperanno e dal loro prezzo di copertina.
La cifra media di cessione per un album all’estero va dai 600 a 3000 euro.
Quindi il singolo autore, che percepisce il 25%, ricaverà dai 150 ai 750 euro lordi.
Le royalties sono liquidate una volta l’anno e vengono calcolate sui libri venduti nel corso dell’anno solare precedente. Ecco perché è fondamentale una buona programmazione del lavoro. Quando si è finito un libro passano mesi prima che esca sul mercato, poi va venduto. Tra una cosa e l’altra passa un anno prima di sapere come sono andate le vendite e prima di ricevere le royalties.
Nel frattempo bisogna fare dell’altro.
Di norma gli editori versano agli autori un anticipo sulle vendite per finanziarne il lavoro. L’anticipo è una scommessa che l’editore fa, mettendosi in gioco, su un progetto in cui crede. Ovviamente l’anticipo viene scalato dal venduto, quindi se nell’anno di realizzazione il libro vende meno di 1000 copie, gli autori non percepiranno nessuna royalties perché di fatto devono ancora ammortizzare l’anticipo ricevuto. L’ammontare dell’anticipo varia a seconda dell’editore e dell’entità del progetto. Va dai 500 ai 2500 euro.
Qualche volta l’illustratore ne percepisce uno più alto dell’autore, perché il lavoro lo impegnerà di più. Ma poi l’anno seguente guadagnerà meno o anche nulla, visto che la cifra da ammortizzare è più alta.
Se il distributore mette in una libreria 10 copie di un libro e il libraio ne vende, facciamo 5, vi verrebbe da pensare di aver ricavato royalties su 5 copie.
Sbagliato.
Spostare libri costa. Quando il distributore chiede al libraio di pagare i libri il libraio può avvalersi, in alcuni casi, del diritto di resa e rendere le 5 copie che non ha venduto.
Le 5 vengono sottratte contabilmente dal venduto effettivo.
Quindi abbiamo: 10 copie distribuite, 5 vendute, 5 rese.
Il calcolo delle royalties si esegue così:
5 (vendute)
– 5 (rese)
= zero royalties.
Penso risulti chiaro come affidarsi a un buon distributore sia fondamentale per vendere libri. Il distributore senza scrupoli forza la mano del libraio convincendolo a prendere in deposito anche decine di copie di un libro, con la promessa della resa. Ma poi di fatto le rese annullano gli utili, tranne che per il distributore.
Visto che la spedizione della resa è a carico del libraio, perlomeno i piccoli libraio, si ostinano a prendere esattamente il numero di copie che pensano di vendere, anche due per volta, per non rischiare di vanificare i propri guadagni con le spese postali per la restituzione dei libri non venduti.
Questa strategia, unita a un mercato che negli anni è stato il riflesso di una crisi diffusa, ha definitivamente fatto abbassare le tirature dei libri in Italia perché di fatto non uscivano nemmeno dai magazzini dei distributori. Nell’ultimo anno le tirature sono diminuite anche in altri paesi europei.
Dipende. Si può anche non riuscire a venderne nessuna. In linea di massima la regola è che almeno metà tiratura dovrebbe andare via nel corso del primo anno. Quindi sarebbe auspicabile venderne 1000 l’anno.
In Francia però il libro comincia ad essere redditizio superate le 3000 copie vendute in un anno. In Germania è la stessa cosa.
Nessuno ha mai detto che con i libri ci si possa mantenere, tanto meno con gli album illustrati. Ad alcuni riesce, alla maggior parte degli altri, no.
Dipende da molte cose: dalla propria bravura, dall’intraprendenza dei propri editori, da un pizzico di casualità, se non vogliamo parlare di fortuna.
Credo che per essere tranquilli si dovrebbe fare 10-12 libri l’anno.
Ma è praticamente impossibile.
L’alternativa è valutare l’idea di affiancare ai libri altre attività.
Si può tenere i libri come attività collaterale ad un lavoro più convenzionale, che non ha nulla a che fare con l’editoria e che può essere qualsiasi cosa, dall’insegnare al lavorare in ufficio.
Oppure si può pensare di rimanere nell’ambiente, lavorando in un studio grafico o collaborando con riviste e case editrici a vario titolo.
O ancora espandere le proprie ambizioni e i propri campi di interesse. C’è chi tiene workshop, chi collabora con la presse, chi illustra libri di scuola o alterna semplicemente le produzioni artistiche con cose più commerciali.
In Francia, per esempio, il mercato dei libri illustrati oltre agli album offre un’enorme scelta di collane di tascabili. Sono molto curati, le storie sono simpatiche, ma paragonati agli album sembrano più “giornalini”. Ai bambini però piacciono, sono pratici da tenere nelle biblioteche scolastiche e da portare a scuola nello zaino. Contengono storie semplici e divertenti. Illustratori famosissimi come Benjamin Chaud e Marc Boutavant, ne illustrano a decine, oltre a illustrare i libri che di solito consideriamo “più belli.”
Per lavorare? Non saprei. Se avete letto i miei precedenti articoli usciti in questo periodo penso sappiate già la risposta: prendere un impegno e rispettarlo.
Per i miei libri usciti in ritardo l’anno scorso, c’erano 25-30 editori stranieri che avevano prenotato la co-edizione. Ce n’erano ovviamente anche più di uno per paese e quindi questo interesse ci avrebbe garantito diciamo 8-10 edizioni straniere nell’arco del primo anno.
Ma le cose cambiano rapidamente. Gli ultimi tre anni sono stati un disastro per l’economia mondiale e il mercato del libro ne sta pagando le conseguenze, come tutti. Il risultato? Dei 25 acquirenti non ne è rimasto nemmeno uno.
Per co-editare i libri bisogna ricominciare daccapo, cercare i clienti uno per uno.
Un libro tradotto in 10 lingue può fruttare circa 14 mila euro con la prima stampa , nell’arco diciamo dei primi due anni dalla pubblicazione originale.
“Bruciare” l’uscita di un libro significa quindi che l’editore che non lo realizza brucia la propria credibilità con alcune decine di clienti e che dopo aver lavorato su un progetto vede sfumare la metà di 14 euro, cioè, 7 mila.
Gli autori ne perderanno 3500 a testa.
Penso sia facile immaginare che l’illustratore che manda in fumo anni di lavoro altrui e 10-20 mila euro, non guadagni la simpatia degli editori.
Non penso di stare dalla parte degli editori. Sto dalla parte dei progetti. La visione degli illustratori, devo dire degli italiani, è sbagliata nei confronti dell’editore. Pensano che qualcosa gli sia dovuto perché sono degli “artisti”.
In realtà fare libri non è che una compravendita in un ambito imprenditoriale (e quindi commerciale).
Un libro è un progetto che si fa insieme e io ho sempre difeso i progetti, anche quando andavano in parte contro le mie aspettative. Quando fai un libro o suoni con qualcuno, non puoi pensare che tutto venga esattemene come ce lo avevi in testa. Ho imparato a convivere con questa cosa, in funzione del progetto e non raramente andando anche incontro alle richieste personali dell’illustratore.