Era un po’ che pensavo di scrivere questo post, ma non era mai il momento giusto. Così ho aspettato che si facesse avanti per conto suo.
Ci tengo a condividerlo perchè penso che una ventata di sincerità sul vivere da creativo (inteso come: vivere con un’attività creativa, non dò chissà quale peso a questa parola,a scanso di equivoci o polemiche) possa fare bene, in questa perenne allure di invincibilità e perfezione che siamo abituati a confezionare, mostrare e ammirare anche negli altri, e che finisce con l’allontanarci da una visione serena e realistica di creativo.
Proprio stamattina ho ricevuto una newsletter in cui mi invitano all’ennesima mostra di illustrazione. L’inaugurazione è stata qualche giorno fa; le foto raccontano quello che tutti noi che seguiamo illustrazione e fumetto sappiamo molto bene.
Visi felici, bei vestiti, la location un po’ glamour, tutti strafighi, tutti convinti di ciò che fanno, tutti senza macchia e senza paura.
Ma siamo sicuri che c’è solo quello?
Non è che semplicemente, è l’unica cosa che si racconta?
La presentazione del nuovo libro, la mostra in centro città o all’estero, l’intervista per il magazine, le dediche al salone del fumetto.
Sono cose che vivo anche io, che ho fatto anche io, che mi piacciono, ma ci terrei a dire che si deve parlare anche della parte buia di questa bellissima luna.
Altrimenti il rischio è di pensare che non ci sia altro per noi. E di gonfiare un po’ troppo le aspettative.
Per due libri che escono, altri tre non sono stati comprati da nessuna casa editrice. Per un cliente grosso che un disegnatore è riuscito ad avere nella sua rosa di clienti, altri dieci lo hanno perfettamente ignorato. Dietro un portone aperto ci sono dieci porte sbattute sul naso. Forse è il caso di raccontare anche la parte scura della luna. Ci rende umani; forse è meno glamour parlarne rispetto all’ennesima mostra in cui ci si sente importanti e ammirati, ma va fatto.
Ecco come può andare quando le cose non funzionano per un disegnatore…
A febbraio mi sono caduti sulla testa i calcinacci di un tetto che si stava sfaldando da qualche mese, dall’estate prima. La vita di un disegnatore è fatta anche di tante cose che col disegno non hanno nulla a che fare, però hanno il potere di ripercuotersi anche sul disegno.
Ero nella camera di un bel bed and breakfast nel centro di Torino, seduta per terra, con le chiappe ben assestate su un tipo di parquet molto lucido, di quello che piace a me.
Disponevo di due belle lampade di ultra design, una arancio e una blu, che coloravano la stanza mentre fuori pioveva, suonando le grondaie delle case di ringhiera e i comignoli fumanti.
Ho sempre voluto una stanza così, a casa mia. Con una grande finestra che dà sui cortili pieni di ballatoi e rampicanti.
In mano tenevo una tisana alla violetta, mi scottava il palmo ma trovavo il contatto rassicurante e quasi remoto.
Sarebbe stato tutto perfetto, una splendida serata di relax dopo una bella camminata per il centro storico e un tè con alcune amiche illustratrici.
Ero a Torino per diletto stavolta, non per lavoro.
Eppure qualcosa non funzionava.
Quello che tenti di non ascoltare e vedere per mesi, all’improvviso ti piomba addosso e tu sei costretto ad averci a che fare.
E quando sei da solo in una città che non è la tua, in una stanza che non è la tua e tutti gli amici ti hanno salutato per tornare a casa, è più facile che certi pensieri non si disturbino a venire a bussare; arrivano e sfondano la porta e se sei pronto bene, se non sei pronto ti coglieranno in pigiama e con l’aria stravolta, per niente presentabile.
E’ per questo, credo, che chi si affligge in certi pensieri ha l’aria stanca e si definisce “il fantasma di sè stesso”.
Se certe riflessioni fossero tanto educate da presentarsi con un minimo preavviso ci faremmo trovare pettinati e con un’aria decisamente più dignitosa. Io sicuramente.
Mi sono sentita sopraffatta.
Nel pomeriggio una collega che stimo molto mi aveva fatto vedere le tavole meravigliose di un progetto che stava preparando per un grosso editore. Vederle dal vivo è stato qualcosa di eccezionale e intenso per me, soprattutto perchè non lavoro praticamente mai in tradizionale e per quanto per ora non mi abbia mai sfiorato l’esigenza di farlo (non per lavoro almeno) mi piace molto vedere gli originali di altri autori.
Avevo anche assistito alla giornata di lavoro di una mia cara amica e collega, con entusiasmo e partecipazione. Ero contenta di essere lì, anzi a dirla tutta non avrei davvero voluto essere da nessun’altra parte.
Poi però, mi sono trovata da sola, io e i miei fantasmi. Se viaggiate parecchio, probabilmente sapete che i vostri fantasmi fanno parte del bagaglio: potrete andare ovunque e potrete avere le valigie piene fino all’inverosimile, ma un posticino per questo o quel fantasma lo si trova sempre.
Tutti li abbiamo.
Un disegnatore ogni tanto, potrebbe portarsene dietro qualcuno più articolato e particolare di altri. Non peggiore, attenzione: non mi piace chi si vanta di essere una vittima d’elezione rispetto ad altre categorie di persone.
Ognuno ha i suoi piccoli e grandi drammi.
Io però sono disegnatrice e quindi alcuni dei miei fantasmi riguardano il disegno e la creatività.
I fantasmi del disegno sono come gli spiriti descritti da Dickens ne “Il canto di Natale”. Ci sono quelli del disegno passato, quelli del disegno futuro e quelli del presente.
Di solito si fanno vivi assieme e come scrivevo poco fa, amano le sorprese e soprattutto auto invitarsi.
Generalmente sono poco educati anche fra loro: infatti si parlano sopra uno con l’altro, perciò mentre tu come disegnatore pensi ai tuoi disastri passati riesci anche ad angosciarti per il futuro.
Sono riflessioni che prima o poi toccano a tutti: cosa sto facendo, e soprattutto lo sto facendo nel modo in cui volevo?
E se invece avessi sbagliato tutto? E se ciò su cui ho basato la mia vita intera stesse franando sotto il peso di una decisione sbagliata?
Quella sera mi sono quasi sciolta su quel parquet scuro e la cosa che mi aveva più stupita nei rari momenti spietata lucidità in quel delirio di enormi e spaventose domande, era l’istinto di nascondermi sotto al letto contro cui ero appoggiata.
Non so per quanto sono rimasta così; so solo che ero intorpidita, stanca di quel silenzio pieno di pensieri aggressivi e di pioggia sui vetri. Nella mia testa, in quel momento, nulla di ciò che avevo fatto, che stavo facendo e che stavo per fare in quel periodo come disegnatrice mi soddisfaceva.
Mi sembrava tutto senza senso.
Ero arrivata proprio al limite: solo pensare all’illustrazione mi provocava un peso dietro allo sterno.
Non fraintendetemi, non avevo smesso di disegnare, anche perchè e sono consapevole del fatto che dirlo è un atto senza alcuna poesia, non me lo posso permettere.
Io sono una lavoratrice e quando devo disegnare disegno e consegno. Ormai mi sono abituata a disegnare senza ispirazione e a farlo comunque al massimo delle mie possibilità, mi sono abituata a disegnare durante lutti, malattie, col caldo, quando gli altri sono in vacanza, sempre. Non aspetto “il mood giusto”, mi ci devo mettere.
Non è freddo e non è crudele, è solo un patto che abbiamo stretto io e il disegno.
Perchè, e lo sapete anche voi, ogni rapporto di qualunque tipo si basa su un patto (di solito tacito). E ogni rapporto stretto prima o poi soffoca un po’ e bisogna prendere le distanze.
Succede quando si è in simbosi.
Ogni tanto noi disegnatori ci confondiamo coi nostri disegni, per questo ci offendiamo nel profondo quando ce li criticano, quasi sempre.
Perchè “confondere”, fateci caso, è “con-fondere”. E noi ci vediamo molto spesso come disegnatori prima che come persone.
E’ che il disegno fa parte di noi, è la nostra intrinseca natura.
Qualche tempo fa ho messo da parte delle persone nella mia vita che non accettavano questa enorme fetta della mia personalità.
E questo cosa vuol dire? Che ho voluto difenderla!
Eppure in quella camera di Torino, l’avrei voluta incenerire. Volevo che mi lasciasse in pace una volta per tutte.
La odiavo e la amavo con la medesima intensità e quell’odio e quell’amore mi fremevano sotto la pelle, forse era quello a sfinirmi.
Ero vigliacca: non volevo la responsabilità di aver scelto di realizzare un sogno. Volevo tornare indietro, fra quelle persone che si lamentano che i sogni sono fatti per restare tali. A volte sarebbe più comodo.
Mi sono addormentata vestita, truccata, sopra al piumone. Alle sei, mentre albeggiava, mi sono resa conto per la prima volta dalla sera prima di com’ero ridotta.
Non so se vi è mai capitato di litigare violentemente, con quella rabbia che vi frantuma le corde vocali anche nel silenzio, ma quella spossatezza tipica del post litigio io ce la avevo fino nelle ossa.
Ero ammaccata, infreddolita, e con gli occhi pesanti mi sono trascinata sotto la doccia bollente per un’ora buona.
Era svanito tutto: erano svaniti la rabbia, il risentimento, ma anche qualunque amore e interesse. Una catarsi.
Ancora in accappatoio sono rimasta a fissare per qualche istante il portatile rimasto acceso tutta la notte.
Non avevo nessun istinto a farlo uscire dallo stand by per leggere i feed di illustrazione che quasi ogni mattina consulto mentre faccio colazione. “No, non mi interessa” ho detto a voce alta.
Ho chiamato questa mia amica illustratrice e le ho detto che ci saremmo viste nel pomeriggio, accennandole della nottata terribile appena passata. Era dispiaciuta, ma sicuramente non sapeva di cosa stavo parlando, figuriamoci; sicuramente comunque non nel concreto.
E’ proprio come essere innamorati, se ci pensate.
Quando ci si innamora, sembra che siamo innamorati solo noi: se siamo felici, nessuno è felice come noi e se stiamo male per amore, nessuno sta male tanto quanto stiamo male noi.
Siamo i primi esseri sulla Terra a sapere cos’è quella data cosa, illuminati da un teatrale faretto nel buio, primi depositari di un sentimento fino a quel momento sconosciuto.
Ho lasciato che la mia amica vivesse la sua normale giornata da illustratrice freelance; l’ho lasciata a cose che io stessa conoscevo e conosco, ma con uno strano senso di estraneazione.
Non sentivo che mi appartenevano come prima. Non dopo quel brusco litigio, per lo meno. Io non appartenevo a quella routine.
Sul mio diario (scrivo sempre 3 pagine al giorno tutti i giorni) ho scritto:
“Come siamo vigliacchi noi esseri umani. Molti mi hanno detto che sono coraggiosa ad avere inseguito il mio sogno. Non sanno che è stato lui a inseguirmi e che io in realtà mi sono passivamente abbandonata a ciò che sapevo fare meglio perchè non ho mai visto altre opzioni, nient’altro che mi chiamasse e per cui fossi adatta.”
Non importa se lo facciamo per mestiere, quindi per vivere, o se lo facciamo per sopravvivere ad un altro lavoro che magari non ci gratifica. Non importa perchè se lo viviamo con passione, prima o poi questi tormenti arriveranno. Se non arrivano è un hobby in cui non abbiamo investito tanto, non è una storia seria.
Avete mai sentito di storielle che suscitano grandi litigi e stravolgimenti? No. Perchè emotivamente non è stato investito nulla.
Quella stessa mattina ho coccolato il gatto di casa, un indolente persiano, sono uscita sui ballatoi a camminare, guardando colf affaccendate nelle case della Torino bene, impiegati prepararsi per andare al lavoro, intrepidi pensionati in boxer che nel pieno di febbraio fumavano la sigaretta post caffè sul balcone, signore che innaffiavano piante grasse, cagnolini annoiati che guardavano uno spiazzo sempre identico da chissà quanto.
E ho capito perchè devo disegnare. C’è troppa bellezza, ovunque e c’è troppo umorismo ovunque si guardi.
C’è troppa storia, c’è troppa narrazione ovunque mi giro. Io li vedevo già disegnati, tutti.
E allora, mi sono fatta un’ultima domanda: perchè non mi stava piacendo disegnare, da mesi? Perchè anche se lo facevo, niente aveva senso e niente sembrava degno di nota?
Non trovavo risposta. E più la cercavo, più avevo quella sensazione di averla intravista, sfuggente, come quando vedi qualcuno che conosci in mezzo alla folla in centro a New York e poi viene sommerso dagli altri, e allora non sei più tanto sicuro che fosse proprio quella persona lì, forse ti eri sbagliato.
Quella stessa mattina ho trovato nella mia camera del bed e breakfast un libro che non conoscevo. Alto, senza sovracopertina né illustrazioni. Si intitolava “Wildwood” scritto da Colin Meloy.
“Aspetta un secondo!” mi sono detta “Ma Colin Meloy è quello dei Decemberists!” è un gruppo indie folk che seguo da anni e anni.
Quando ho aperto il libro però ho scoperto che di illustrazioni ne aveva eccome, mi son sentita sinceramente perseguitata.
E quanto mi piacevano quelle illustrazioni. La stessa illustratrice, Carson Ellis, non l’avevo mai sentita prima d’ora. Le tavole erano fresche, originali, mai leziose e straordinariamente lontane dal gusto italiano e da ciò che qui viene spesso spacciata come l’unica illustrazione possibile.
Lì per lì ero interessata alla storia che mi stava molto piacendo (infatti poi ho letto tutti e tre i libri della saga) ma più mettevo gli occhi su quelle tavole a pagina intera e sugli splash più mi riconciliavo con l’illustrazione.
Però mi sentivo ferita e continuamente tradita dal disegno.
Perchè non potevo essere serena come tutti gli altri disegnatori che mi circondavano?
Perchè io dovevo vivere questa cosa in maniera così tumultuosa, mentre gli altri vanno avanti tranquilli, senza mai un passo falso?
Com’è possibile che agli altri vada sempre tutto bene, non inciampino mai nel cliente poco serio, nell’editore spocchioso, nel progetto che non incontra la qualità del proprio operato, perchè sono sempre felici e io invece sto così?
Un altro mare di domande formava un’ondata di nuovo risentimento, e non sapevo nemmeno bene se fosse più verso me stessa o verso il disegno stesso.
Quando pensi queste cose ti senti poco meritevole di fare quello che fai, ecco.
Nel pomeriggio mi sono vista con la mia amica e le ho parlato di questo. Solo io so quanto mi è costato, mi sarei voluta seppellire.
Provavo una vergogna estrema.
Ma visto che l’unica alternativa era odiare il disegno non avevo molte altre possibilità di guardare la cosa in faccia.
Tanto valeva vuotare il sacco.
Mi vergognavo di dire quelle cose, di pensarle, e mi vergognavo di dirle a un’altra persona che sicuramente pensavo, non c’era mai passata.
Ricordiamoci che quando siamo innamorati e stiamo male per qualcuno che non ci corrisponde noi siamo i primi esseri umani a cui succede: gli altri non sanno cosa sia quel dolore. L’ho già scritto prima.
Mi vergognavo di dirlo a lei anche perchè è forte, è creativa, è brillante e la ammiro molto come artista e come lavoratrice.
Non ridete, ma non l’avrei mai pensato: sapeva benissimo quello di cui stavo parlando. Lei, forte, brillante creativa e super laboriosa.
Non mi sarei mai immaginata che lei stessa avesse passato quella rabbia e quella frustrazione e quella sensazione di spegnimento. E che ci cadesse periodicamente, oltretutto, come me.
“Morena, il fatto è che ci passiamo tutti ma nessuno te lo viene a dire!”
Ah si? Davvero? Per me era una vera rivelazione.
Ma ci passano tutti tutti?
Qualche settimana più tardi ho partecipato alla conferenza che Gipi (mica uno qualunque: proprio Gipi) ha tenuto al WOW!, museo del fumetto di Milano e per poco non mi sono trovata in lacrime (ancora! Santo cielo questi rubinetti perdono troppo).
Parlava di un blocco enorme da lui vissuto, di come niente gli sembrava avere un grande senso. Di cose che io quella notte di due settimane prima avevo passato a Torino, sola coi miei fantasmi.
Anche lui aveva i suoi. E ci aveva fatto a botte. Non sempre ne era uscito vincitore. Qualche volta si esce ammaccati.
Ancora una volta però pensavo di essere quasi sola.
Io e Gipi.
Figurati, gli altri non sapranno di cosa parla.
Come siamo egocentrici noi esseri umani.
Mi sono guardata attorno; ero in seconda fila e dalla terza fino in fondo alla sala gremita quanta gente annuiva, carica di comprensione.
Lì ho capito che tutti stavamo pensando la stessa cosa: se succede a Gipi, perfino uno come Gipi, forse c’è ancora speranza.
Tutti ci eravamo passati, forse lo stavamo vivendo anche in quel periodo. Quella settimana, quel mese, quell’anno.
Si coltiva tanto questa immagine del creativo sempre fiammante, infallibile, che sa sempre cosa dire, cosa fare e lo fa sempre al meglio. Che non ha mai dubbi e ripensamenti e crisi e blocchi creativi.
Si coltiva così tanto questa immagine di super-creativo che si finisce col pensare di essere sbagliati e unici nel proprio blocco.
Nessuno te lo viene a dire, eppure…succede proprio a tutti tutti.
Tutti tutti.
A parte una categoria di persone: quelle che vi mentono e negano questa verità, perchè pensano che avere fantasmi sia per gente che non è all’altezza di vivere da creativo.
A loro auguro un buon parquet dove poggiare le chiappe, e degli amici sinceri come quelli che ho io.
e stavolta i rubinetti li ho aperti io…. :,)
Credo che anche i miei rubinetti, come i tuoi, funzionino male ç___ç Bell'articolo, verissimo tutto quanto
Un post molto bello perchè reale, sincero e necessario. È vero, nessuno dice mai di essere in crisi, gli altri rispetto a noi sono invincibili, sempre pieni di idee e progetti originalissimi. Io più volte ho pensatp di essere sbagliata, perchè amo l'illustrazione, amo disegnare, ma non sono di quelle che disegna 3h al giorno. Passo anche una settimana senza fare nulla di serio, e mi sento spesso sbagliata, in colpa, non all'altezza. Come se avessi preso una strada che non è la mia. Ma poi se mi fermo a pensare all'impegno che fin'ora ci ho messo, al tempo dedicato, capisco che forse periodi più rilassati ci stanno, e che finchè me li posso prendere faccio bene a sfruttarli per nutrirmi di libri e immagini che mi serviranno poi appena avró l'energia giusta. Spero sia la cosa giusta da fare. Grazie per questa condivisione. Un bacio, Michela
Quanto è vero tutto ciò.
Sono stupefatta dalla tua storia… grazie per averla condivisa, soprattutto in questo momento.
Io ti ringrazio enormemente per questo tuo post e pensa che era una cosa che ti volevo chiedere da tempo ovvero se hai mai avuto questi momenti.
Da settimane non sto disegnando. L'ho fatto due volte e solo perché mi stavo annoiando.
Da una parte mi sono sentita sollevata perché non ho scadenze da rispettare, ma non è che questo pensiero mi abbia confortato del tutto perché il dolore lo sento.
Il fatto è che come te ed altri, non mi sento di aver scelto io il disegno. Negli anni lui è stato sempre un mio compagno di vita e ora mi sento quasi privata di questo.
Perché? Non lo so.
Non credo tanto al super-creativo imbattibile e per quanto riguarda i fantasmi, io non viaggio molto ma sento di averne. Fantasmi di disegni e di vita.
Grazie ancora per questo tuo post che mi ha rincuorato almeno un po'.
P.S.: Di Gipi ho visto le puntate dedicate a lui su Fumettology e sono stata davvero felice di vederle. Per me è stato molto istruttivo.
Non sono un creativo, ma studio informatica (anche se il mio sogno nel cassetto è sempre stato disegnare)
Questo post mi è stato consigliato da un mio carissimo amico, che creativo, a differenza mia, lo è davvero.
Non penso di avere un sogno "definito", o qualcosaqualcuno da rincorrere. Nella mia vita ho sempre preso scelte molto difficili, a causa di una mia insicurezza radicata in esperienze negative passate.
Per questo motivo un po' mi vergogno (cosa ci fa un informatico tra creativi?), ma molte cose che hai detto, che hai esternato, le ho sentite mie. Quando parli di porte chiuse, forse, capisco di cosa parli. Capisco lo struggersi sulle decisioni passate, e su quelle che potrebbero ripercuotersi nel futuro. Capisco la sofferenza derivata dalla paura. Quella pura, che sale dal profondo del tuo io, come un fiume nero e calmo, che si espande fino a raggiungere ogni parte di te. Capisco il chiedersi se quello che ci sta succedendo accade solo a noi
Ora mi trovo in un periodo molto difficile, pieno di sfide parecchio impegnative per me. E sono francamente terrorizzato. In colpa per le mie scelte passate, spaventato per le mie scelte future e il mio sguardo è spesso rivolto agli altri, che sembrano essere "invincibili", imperturbabili
Sono però arrivato alla conclusione che le difficoltà, alla fine, sono parte di noi. Così come i rimpianti e le paure
Credo che tutte queste cose servano. Servano per farci capire cosa è importante, e cosa non lo è. Per noi.
Tutti vivono il mito del: "se sei privo di paura, sei un eroe, imbattibile, invincibile". Per me sbagliano
Se sei privo di paura, muori. Sia dentro che fuori. Chi non ha paura è privo di empatia per questo mondo. Chi non ha paura, non impara niente
C'è una frase di una persona che ho stimato molto, che ora non c'è più, che mi porto sempre dietro:
"Courage is not the absence of fear, but rather the judgement that something else is more important than fear."
Spero di non essere stato di troppo :)
Marco
(Amo Gipi btw)